Facciamo chiarezza sulle “parole” del vino
“Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti, e le parole sono lo scoglio da superare. Quando parlo ai miei clienti, o ai miei amici, o a chi incontro a degustazioni ed eventi, del naturale artigianale, le domande più tipiche sono “ovvero senza solfiti?”, “ovvero bio?”, “quello che puzza?”.
È doveroso, per terminare la nostra introduzione (iniziata qui e continuata qui), dare qualche informazione sulle parole utilizzate nel mondo del vino artigianale naturale, o almeno su quelle che stanno sulla bocca di tutti: biologico, biodinamico, naturale, senza solfiti.
La certificazione Bio (o Organic) è propria del processo di vinificazione da pochi anni ma, per quanto riguarda l’agricoltura, nasce negli anni ‘80 ed è stata la prima grande lotta, e la prima grande vittoria, dei contadini che volevano difendere l’ambiente e il territorio.
Ha diverse sfaccettature per ogni ambito agricolo ma, di base, possiamo dire che vieta l’uso della maggior parte degli antiparassitari, funghicidi e pesticidi, e punta alla salvaguardia dell’ecosistema, del suolo, dell’ambiente e della pianta.
Da pochi anni esiste anche la certificazione Vino Biologico, che controlla anche la lavorazione in cantina. Ogni ingrediente utilizzato deve essere certificato Bio, e il limite massimo di solforosa totale è più basso rispetto al normale limite legale.
Sul Biologico il dibattito è aperto: si conviene quasi unanimemente sul fatto che la certificazione, per quanto riguarda il vino, sia troppo permissiva. Certamente non è una garanzia di qualità e di artigianalità, ma non lo vuole essere.
C’è chi la considera un punto di partenza, e chi la considera un imbroglio e chi, credendoci, la considererebbe un punto di arrivo se resa più restrittiva.
Di recente diversi casi hanno dimostrato quanto sia facile eludere la certificazione, ma il fatto che una legge sia facile da infrangere non significa, probabilmente, che non dobbiamo fare le leggi.
La biodinamica è una disciplina derivata dall’antroposofia di Rudolf Stainer, intellettuale austriaco vissuto a cavallo tra il XIX e il XX Secolo. Nel 1924, sulla base di ricerche empiriche sulle tradizioni contadine e dell’osservazione astronomiche, in una serie di letture espose la teoria della Biodinamica.
E’ qualcosa di non dimostrato e non dimostrabile ma, a livello empirico, tutti coloro che seguono questo metodo affermano che sia fondamentale per la vitalità del terreno.
Non scendo nei particolari, ma la biodinamica è un insieme di pratiche che derivano da millenni di esperienza contadina, che puntano sulla relazione e interconnessione tra la terra, la luna, i pianeti e la pianta.
C’è chi pensa che sia più stregoneria che altro, c’è chi contesta il fatto che diventi un metodo, perdendo quindi la sua componente esoterica e olistica, chi la considera semplicemente una pratica biologica potenziata.
Sta di fatto che, tra mille polemiche, dagli anni ‘80 si utilizza in viticoltura, anche e soprattutto grazie al lavoro di Nicolas Joly e dell’Associazione Renaissance des Appellations, che ha promosso il metodo in tutto il Mondo.
Esistono diverse certificazione biodniamiche, tra le quali la meglio conosciuta è certamente Demeter, che si ottiene dimostrando l’utilizzo (o la preparazione) dei preparati biodinamici, e dopo cinque anni di certificazione Biologica. Nell’immaginario collettivo, i vini biodinamici sono quelli che puzzano, ma questo è un grandissimo equivoco, perché potrei elencare centinaia di vini biodinamici nei quali un degustatore non esperto non noterebbe alcuna differenza con i vini cosiddetti convenzionali.
Naturale è la parola più divertente, forse la più bella, certamente quella più confusa.
Non esiste una certificazione naturale, ma esistono diverse associazioni (non tante, ne contiamo al massimo cinque o sei tra Italia e Francia) che pongono regole più o meno restrittive agli associati: citiamo AVN in Francia, Vini Veri e Vinnatur in Italia, giusto per offrire i nomi più famosi.
Partendo da una pratica agricola quantomeno Biologica (anche non certificata), dall’utilizzo esclusivo di rame, zolfo, preparati di erbe e preparati biodinamici, in ogni caso escludendo i fertilizzanti, la discriminante principale sta nell’utilizzo in fermentazione dei soli lieviti indigeni.
Significa, in poche parole, che non si utilizzano lieviti acquistati da aziende enotecniche (nemmeno quelli certificati Bio) per far fermentare l’uva.
Non si utilizzano stabilizzatori e additivi, poi il dibattito è aperto sulla selezione massale o clonale, sui vitigni cosiddetti autoctoni e cosiddetti internazionali, sulla chiarifica (certamente non con prodotti di sintesi, ma la chiarifica col bianco d’uovo si fa da secoli), sull’aggiunta di zuccheri in rifermentazione, sulla filtrazione, sulla quantità di solforosa totale, sul controllo di temperatura.
Con il termine naturale si definisce anche il movimento che, negli ultimi dieci anni, ha segnato la svolta nel mondo del vino. Come ogni movimento, è un contenitore di posizioni e idee diverse, spesso in conflitto tra loro, ma che vanno nella stessa direzione. C’è chi lotta per creare un disciplinare, chi lo rifiuta perché “fatta la legge fatto l’inganno” e teme che la grande industria possa, tra le pieghe di un regolamento, far proprio il termine, chi punta solo e soltanto al rapporto diretto di fiducia. In generale, quasi tutti convergono sull’importanza di indicare in etichetta gli ingredienti del vino, come accade per ogni prodotto alimentare, per chiarezza nei confronti del consumatore che potrebbe, dallo scaffale, scegliere liberamente tra un vino fatto di uva e zolfo e uno fatto di venti/trenta ingredienti diversi.
Poi, l’ultima parola famosa, è Senza Solfiti o, nella sua sigla francese, S.A.I.N.S.
Significa semplicemente che il produttore non aggiunge solfiti (il solfito non è una sostanza unica, ma si articola in diverse composizioni chimiche a base di zolfo e ossigeno, tra i quali il più diffuso è il bisolfito di potassio) in alcuna fase della vinificazione.
Formalmente, un vino senza solfiti può anche non essere naturale né biodinamico né biologico ma, generalmente, questa lotta appartiene ai produttori naturali.
L’uva produce anidride solforosa, è una protezione naturale contro il degradamento e l’ossidazione, quindi non esiste un vino con zero solfiti. L’aggiunta di solfiti, sempre per la produzione di anidride solforosa, è dovuta alla ricerca di una maggiore protezione per l’invecchiamento, il trasporto, gli sbalzi di temperatura. La solforosa naturalmente prodotta si disperde con i travasi in altri momenti, quindi l’aggiunta rappresenta proprio una garanzia in più.
In generale, tutti i produttori naturali tendono a utilizzarne il minimo indispensabile per sentirsi sicuri, e sempre più produttori rischiano il non utilizzo. Chiaro: meno se ne usa meglio è.
Sotto i 10mg/l non è obbligatorio scrivere sull’etichetta “contiene solfiti” e oltre questa soglia, anche se non se ne sono aggiunti, è obbligatorio scriverlo. Alcuni indicano la quantità effettiva, alcuni scrivono frasi come “i solfiti contenuti nel vino sono naturalmente prodotti dall’uva”.
Un ex-collega, che importa vini in Polonia, definiva il suo catalogo “nulla aggiunto, nulla tolto” e, fin ora, è forse la definizione più bella, disarmante nella sua semplicità, di questa ultima categoria di vini.
Emiliano Aimi
pubblicato il 20 dicembre 2016 in Wine Meridian