(Testi e ricerche di Gianni Mondelli – 1985)
Ci si chiede spesso perché la viticoltura parmense sia relativamente modesta rispetto a quella delle altre province emiliane e perché vi siano differenze anche vistose nel confronto con le superfici vitate e la quantità di vino prodotto nelle province confinanti di Piacenza e Reggio Emilia. La modestia della vite e del vino acquista un rilievo tanto maggiore in quanto sottolinea il contrasto di questo comparto con l’eccellenza qualitativa e quantitativa di tutto il settore agricolo e agroalimentare della provincia di Parma. Ma come? la Food Valley parmigiana non produce vino?
Le risposte e le illazioni più diverse non sono mancate né ancora mancano: si è spesso sentito dire e letto che i terreni del parmense sarebbero inadatti alla vite; che il predominio economico delle altre produzioni agricole “eccellenti” avrebbe soffocato l’interesse per la viticoltura; che tra gli agricoltori parmensi mancherebbe una vera cultura per la vitivinicoltura, ecc.. Ed il fatto strano è che l’insistenza di queste illazioni ha finito con il creare in più parti il convincimento che esse siano fondate. La risposta a questa domanda ha risvolti ben più complessi, con un intreccio di motivazioni specifiche, ciascuna delle quali ha dato un proprio determinante contributo al risultato finale, vale a dire al ridimensionamento economico e culturale della vitivinicoltura della provincia che soltanto in anni recenti ha saputo riavviarsi sul mercato con una struttura produttiva adeguata o comunque in decisa fase di rilancio.
Intanto deve essere sconfessata la falsa illazione secondo la quale i terreni dei parmense sarebbero inadatti alla vite; semmai occorre distinguere tra zone, vale a dire tra la generalità della pianura ed i terreni meglio esposti e protetti della collina. Su questo punto le polemiche tra agricoltori hanno spesso confuso le carte e le idee, ma già il solito Bizzozero aveva a suo tempo, e ripetutamente, parlato con lampante chiarezza: “Ritengo ancora che l’alta produzione di grano si possa ottenere sia nella pianura che nella collina, ma considerando che il colle è specialmente favorevole alla coltivazione della vite ed alla produzione di vino buono e serbevole, direi che non sarebbe male togliere la vite da quelle pianure ove essa rende vini di debole grado alcolico, insipido, di difficile conservazione, per lasciare che il mercato del vino sia prevalentemente rifornito dall’alta pianura e dal colle” (A.Bizzozero, Avvenire AgricoIo, 1902)
C’è da annotare subito che lo stesso Bizzozero non modificherà mai, lungo tutta la sua quarantennale carriera di maestro “cattedratico” questa opinione sulle vocazioni dei terreni collinari e sulle più opportune scelte di coltivazione, anche se proprio alla conclusione del suo incarico (e della sua vita, terminata nel 1934) dovette accettare ben altri indirizzi colturali per la collina parmense. E qui occorre richiamare, sia pure fugacemente, alcune concomitanze che si sono verificate insieme all’emergenza fillossera. Si è visto come le infezioni fillosseriche si siano massicciamente propagate nel parmense proprio tra la fine degli anni ’20 e l’inizio dei ’30, non solo devastando la viticoltura della collina, dove più cruenta è stata la propagazione del parassita; ma soprattutto mettendo in ginocchio quelle aziende che, già da tempo orientate verso la produzione di vini di alta qualità, (Guerci, Tosini, Bergonzi, Cavalli, Brian, ecc.) costituivano un punto di riferimento per tutto il comparto vitivinicolo parmense. Si può legittimamente presumere che se ciò non fosse avvenuto, queste aziende avrebbero certamente trascinato l’intero comparto verso affermazioni analoghe a quelle ottenute da altre province emiliane.
Ma alla tragica realtà della fillossera ed alla prostrazione che essa provocava tra i viticoltori, si sono aggiunte in quegli anni altre due concomitanti circostanze avverse. La prima di natura economica, costituita da una perdurante crisi del mercato vinicolo nazionale i cui effetti negativi si sono accentuati nel parmense, un po’ per i limiti strutturali propri di questo comparto agricolo provinciale, un po’ per le oggettive difficoltà all’epoca da esso sofferte. Una crisi di mercato che certamente non ha contribuito né a mantenere alto il morale e la voglia di fare dei viticoltori, né a stimolare investimenti per ricostituire il patrimonio viticolo con nuovi impianti destinati a sostituire quelli distrutti dalla fillossera. Riferimenti e scritti sulla crisi dei mercato dei vino negli anni ’20 e ’30 abbondano nella stampa del periodo, soprattutto nelle pagine dell’Avvenire Agricolo, dalle quali venivano moltiplicati gli appelli agli agricoltori a non spiantare le viti, segno evidente che invece era proprio ciò che si stava verificando. Dalla loro lettura si ricava la sensazione che la viticoltura parmense, in particolare quella collinare, si sia in quegli anni come contratta e rattrappita, costretta ad una specie di sopravvivenza minima.
Ma l’emarginazione maggiore della vite nel parmense è sicuramente venuta da una seconda circostanza negativa concomitante alla devastazione fillosserica, probabilmente ancora più decisiva della crisi del mercato vinicolo perché di natura non economica, ma politica: l’ordine di Mussolini di intensificare con ogni mezzo in tutta Italia la coltivazione del frumento. Per ottenere il massimo risultato le autorità fasciste di governo non si risparmiarono né in determinazione né in propaganda: venne coniato l’efficacissimo slogan che imponeva a tutti gli agricoltori italiani di vincere la “battaglia del grano”. Di fatto le immagini del Duce a torso nudo tra le bionde messi italiche, a furoreggiare in vitalità e forza tra i mietitori, affascinarono certamente gli italiani, ma soprattutto abbagliarono gli agricoltori che risposero compatti all’appello del regime. Le sollecitazioni a coltivare grano ovunque vi fosse terra coltivabile erano d’altra parte perentorie e non lasciavano scampo: “arrivare fino all’ultimo casolare e fino all’ultimo uomo”, era questo l’ordine frenetico impartito ai Consorzi ed alle Cattedre di agricoltura, compresa ovviamente quella parmense. Persino un militante ferreo della logica e della scienza agraria come Antonio Bizzozero ne fu coinvolto, trascinato al punto da sacrificarvi persino le proprie incrollabili idee. Ma l’ormai anziano Maestro della agricoltura parmense non poté probabilmente far altro che concedersi agli interessi di chi aveva semplicemente il potere di decidere, anche se diversamente da quanto lui aveva sempre creduto e fatto lungo tutta la vita. Di fatto la battaglia del grano venne vinta anche in collina, sacrificando però la vite.
L’attuale “gap vitivinicolo” parmense non è dunque di antica o antichissima data, ma storicamente recente. Così oggi pochi sanno che in provincia di Parma, all’inizio degli anni ’20, la superficie agraria occupata dai vigneti specializzati (1.800 ha circa) era di non molto inferiore a quella della ben più agguerrita provincia limitrofa di Piacenza, in quello stesso periodo di circa 2.300 ha (cfr. “I vini piacentini”, inserto speciale di Piacenza Economica, 1977), mentre la superficie vitata complessiva di questa provincia era addirittura inferiore alla corrispondente area parmense (circa 60.000 ha contro 89.000). E tuttavia, per restare all’esempio piacentino, già nel 1941 Gutturnio e Monterosso entravano a far parte dell’elenco ufficiale dei vini pregiati italiani. Invece per i vini collinari parmensi che allora risultavano sopravvissuti alla emarginazione ed alla decadenza della viticoltura provinciale avvenuta nella prima metà di questo secolo, si possono ritrovare solo riferimenti bibliografici sparsi, più o meno marginali, con alcune citazioni su pubblicazioni specializzate.
Certamente i vini tipici del parmense non hanno mai avuto la notorietà degli altri biasonati prodotti di questa terra. Ma poiché ad una verifica oggettiva le ragioni generalmente fornite a spiegazione si rivelano infondate, resta da capire l’atteggiamento quasi di sufficienza che la maggior parte degli stessi parmigiani ha mostrato per molti anni, fino alla affermazione degli attuali vini D.O.C., nei confronti della loro tradizione vitivinicola collinare. Si potrebbe pensare che vi sia un’altra motivazione solo apparentemente sottile: in una città ed in una provincia dove il compiacimento tende soprattutto a rimirare se stesso ( “Il narciso che è da sempre questa città“…, ha scritto Alberto Bevilacqua ne “La Festa Parmigiana“) non può esserci alcuna concessione di credito per la mediocrità, anche se solo presunta. Così è stato forse per il vino della collina parmense, troppo poco e troppo poco famoso per essere riconosciuto e apprezzato tra i prodotti eccellenti di questa terra. Al massimo lo si è fatto entrare in scena come onesto comprimario di protagonisti autentici, richiamandone gli accostamenti: ai grandi primi piatti della cucina parmigiana; oppure alle “Loro Altezze” Prosciutto di Parma e formaggio Parmigiano-Reggiano. In veste cioè di cortigiano, ammesso solo in quanto tale alla corte della grande gastronomia locale. Invece i vini della collina parmense hanno attributi propri, chiari e sinceri, e basta berli (e berli bene) per convincersene. Per essi è del tutto inutile ricorrere a stereotipi più o meno abusati. Verdi e Maria Luigia, genio e granduchessa, “testimonial” formidabili di gran parte della eccellenza parmense, compresa ovviamente quella alimentare, sarebbero per essi ben poco credibili.
In realtà nessun altro prodotto della grande tradizione agroalimentare parmense ha come la vite e il vino un legame tanto forte ed assoluto con la terra, con la mente e l’anima contadine di chi la vive e la lavora. Si tratta di un legame antico, radicato e diffuso, ricco di testimonianze e di prove concrete che dimostrano come non valgano i pregiudizi di presunta mediocrità o di carenza vocazionale per la vite.
Il giorno 17 aprile 1903 è stato uno di quelli che rimangono impressi indelebilmente nel corso della vita o che si ricordano negli anni della vecchiaia, quando i nipoti si lagnano, perché anche le stagioni si son messe a congiurare contro il povero agricoltore. Durante la notte era caduta fitta la pioggia e continuava a cadere al mattino, quando improvvisamente essa cessava, per lasciar posto ad una nevicata abbondante, ostinata, che in poco tempo ricopriva tutto e ci trasportava in pieno inverno. Le nostre colline ricoperte di vigneti, nella notte successiva alla nevicata, prima dell’albeggiare, sembravano un immenso accampamento, tanti erano i fuochi accesi per difendere colle nubi artificiali i teneri germogli delle viti.” (A.Bizzozero, su Avvenire Agricolo, 1903).
È accertato da molte altre testimonianze e documentazioni storiche che la viticoltura collinare è sempre stata patrimonio e fiore all’occhiello della agricoltura parmense anche in tempi relativamente vicini, senza dover scomodare, per dimostrare questo assunto, i nobili del Ducato o i grandi funzionari francesi venuti con delega napoleonica a governare il territorio dalle loro ville in collina. Nell’estate del 1900 le 50 batterie antigrandine installate dal Consorzio contro la grandine di Costamezzana e da quello “grandinifugo” di Torrechiara spararono le loro bordate contro le nubi di tredici temporali che minacciavano i preziosi vigneti dei consorziati. Uno scrupoloso contabile ne ha lasciato un significativo rapporto, annotando con molta cura il numero esatto dei tiri ed i relativi costi a carico dei consorziati, ripartiti a seconda del livello di protezione richiesta ed in ordine di importanza per le colture da proteggere: vigne, campi vitati, campi nudi.