Il 6 febbraio scorso, con la scomparsa di Giacomo Tachis, 82 anni, il vino italiano ha perso uno dei suoi padri nobili, una figura imprescindibile per il rinascimento qualitativo e di immagine del vino italiano. Un personaggio straordinario, come nessun altro, che non solo ha firmato vini icona, soprattutto in Toscana, come Sassicaia, Tignanello e Solaia, ma anche, tra gli altri, il Terre Brune di Cantina Santadi ed il Turriga di Argiolas in Sardegna, il San Leonardo di Tenuta San Leonardo in Trentino, il Pelago di Umani Ronchi nelle Marche, e solo per citarne alcuni. Tachis ha portato uno sguardo nuovo, umile e curioso, nel vino italiano, dimostrandosi capace di valorizzare i territori di tutta Italia sia attraverso i vitigni autoctoni che internazionali, spesso “mescolati” insieme, con un’apertura mentale insolita, allora, negli anni 60-70, come oggi.
Ritenuto artefice di un Rinascimento del vino italiano, dopo gli studi alla Scuola di enologia di Alba e le prime esperienze professionali, nel 1961 Tachis approdò alla casa vinicola Marchesi Antinori dove rimase per 32 anni divenendone storico direttore.
Appassionato bibliofilo, ritiratosi nel 2010 nella sua casa di San Casciano Val di Pesa dove custodiva antichi volumi, dal suo studio continuava a tenere d’occhio l’agricoltura e in particolare la viticoltura. Alcune sue ben note affermazioni ne ricorderanno a lungo il profilo culturale e professionale.
«Il vino non conoscerà mai crisi perché la gente lo beve e lo berrà sempre. Negli ultimi decenni sono stati fatti grandi investimenti economico-finanziari nelle campagne. In parte hanno fatto del bene, perché hanno portato progresso. Ma in parte no, perché c’é chi si è adagiato su un iniziale progresso e ci sono tendenze speculative. Ad ogni modo il vino ha avuto e avrà sempre mercato. Il vino, quindi, ci sarà sempre e sarà naturale se sarà fedele alla sua natura. Rispettiamo la natura e la semplicità del vino. Perciò niente chimica come viene fatta oggi e attenti alla genetica, perché la natura si ribella». Giacomo Tachis distingueva personalmente due tipologie di vino: «C’é il vino del povero e il vino del ricco. Quello del povero è il ‘vinum operarium’ fatto semplicemente dal contadino, che nasce dal sentimento e che è più vicino alla natura. L’agricoltore serio vinifica come sente di fare e l’ispirazione gli proviene dalla campagna e dall’armonia raggiunta con essa; in questo modo il vino nasce dalla mano dell’uomo come la natura vuole che sia.
Il vino del ricco, invece, si ha con tecniche sofisticate, viene ottenuto con travasi particolari, microfiltrazioni o anche balle tipo l’osmosi inversa e altre ancora. Punta su vitigni scelti, noti, sui più blasonati».
Tachis si definiva un umile mescolavino, in realtà il suo orizzonte guardava lontano, alla biologia molecolare, all’ingegneria genetica. «Ora è il momento di vitigni emergenti come Cabernet e Syrah, ma in futuro ne arriveranno altri. Si affermeranno vitigni più ‘scorrevoli’, ‘passanti’, meno alcolici».
Nel 2014 gli fu conferita la medaglia d’oro con il simbolo del Pegaso, massima onorificenza della Regione Toscana, consegnata alla figlia Ilaria perché Tachis, da tempo malato, era ormai impossibilitato a muoversi.
«Con la sua scomparsa il mondo del vino perde uno dei suoi più importanti maestri». Così il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, che ha definito Tachis un «protagonista indiscusso del rinascimento del vino italiano. Se oggi il vino italiano è riuscito a raggiungere certi traguardi è anche per merito di uomini come Giacomo Tachis e Luigi Veronelli che in anni duri hanno saputo accompagnare il rilancio di questo settore. »